Gilda

giovedì 23 febbraio 2017

Scuola come talent show


È questa la scuola di cui abbiamo bisogno? È questa la promozione della cultura umanistica? Abbiamo bisogno di una cultura umanistica (e di un rapporto con la lingua e con le forme artistiche) come esercizio della complessità del sapere e dell’esperienza, del senso della memoria e della storia.

17 Febbraio 2017 | di Giulio Ferroni




Mi era parsa una buona notizia quella dell’approvazione da parte del governo di un decreto sulla promozione della cultura umanistica: mi sembrava un tempestivo effetto di tante recenti discussioni sulla persistente utilità degli studi classici, sul valore del greco e del latino, sulla produttività formativa di ciò che sembra inutile, ecc. Non si trattava certo di rilanciare a tutti i costi il liceo classico, né di inserire in tutti gli ordini di scuola lo studio di rudimenti del latino o la lettura dell’Eneide e del De rerum natura, ma di dare rilievo più generalmente ad una prospettiva “umanistica”, ad un esercizio della cultura come coscienza critica, come visione della complessa articolazione del reale, come sostanza e memoria dell’umano, senso della distanza e della differenza, raccordo vivo tra il lascito del passato e le esigenze del presente.
Ma la lettura del decreto ha dissolto immediatamente ogni possibile compiacimento: se nel suo titolo esso collega alla promozione della cultura umanistica la valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e il sostegno della creativitàlo sviluppo del testo nei suoi vari articoli viene a battere in modo totale sulla creatività, senza che vi si dia nessuna caratterizzazione dell’aggettivo umanistico, nessun riferimento alla sua sostanza storica, morale, estetica, ideologica. Qui per cultura umanistica si intende semplicemente tutto ciò che rientra in un indeterminato ambito “creativo”, in un generico esercizio delle forme artistiche, in una concezione della cultura come pratica performativa. Le intenzioni e l’orizzonte del decreto sono ben definiti nell’articolo 3, che insiste sulla «sinergia tra i linguaggi artistici e le nuove tecnologie» ed elenca le quattro «componenti del curricolo», denominale temi della creatività, che riguardano gli ambiti musicale-coreutico, teatrale-performativo, artistico-visivo e linguistico-creativo. Per ciascuno di questi ambiti si fa riferimento alla conoscenza e alla pratica, ma l’accento insiste trionfalmente proprio sulle diverse pratiche: «pratica dello strumento, dell’arte e della danza e di altre forme di spettacolo artistico-performativo», «pratica dell’arte teatrale e cinematografia», «pratica della pittura, della scultura, della grafica, delle arti decorative, del design e di altre forme artistiche», «pratica della scrittura creativa, della poesia e di altre forme di espressione, della lingua italiana, dei linguaggi e dei dialetti».
Insomma promozione universale di pratiche artistiche, che sembra voler fare del discente una sorta di dilettante artistico totale e dell’orizzonte scolastico un universo di perpetua versatilità creativa, dove si esplica un giocoso “fare” totale, indefinita educazione all’allestimento spettacolare. A parte un accenno alla «storia dell’arte», i dati della cultura storica, nella loro difficile problematicità, appaiono del tutto marginali e indifferenti, ricondotti semmai al loro uso come materiale di consumo, di appropriazione e riciclaggio performativo. Così il rilievo universale della cultura italiana, del suo radicarsi concreto in luoghi e situazioni specifiche, viene ricondotto al valore del «patrimonio culturale», concepito in stretta correlazione con «le opere d’ingegno del Made in Italy, materiale ed immateriale». E l’insieme impone lo sviluppo di un Piano delle Arti, che si articola in modo diverso nei diversi ordini di scuole, ma che deve agire già sulla scuola primaria e che tra l’altro deve mirare alla valorizzazione dei «talenti attraverso una didattica orientativa».
Al di là del suo linguaggio inevitabilmente burocratico, il decreto ambisce a porsi come una sorta di trionfale affermazione del Bello, secondo l’immagine dell’Italia come «Paese del Bello»: e se ne può avere una più elementare versione nel modo in cui esso è stato presentato in un articolo del «Corriere della sera» del 20 gennaio, in cui, intervistando Luigi Berlinguer, maestro e donno dello stesso decreto, la giornalista Claudia Voltattorni ne dà un’immagine quasi parodica: «Fin dall’asilo. Tutti potranno imparare a suonare uno strumento, tutti canteranno. E poi reciteranno, gireranno film e documentari, dipingeranno, scriveranno poesie, realizzeranno opere d’ingegno e artigianato». E non dimentichiamo che, come precisa il decreto, tutto ciò deve avvenire anche senza «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
Come può tutto ciò commisurarsi con le condizioni concrete del mondo scolastico? Ed è questa la scuola di cui abbiamo bisogno? È questa la promozione della cultura umanistica? In quale vuoto culturale, in quale incapacità di percepire le lacerazioni e le vere esigenze del presente si inserisce questa proiezione dell’attività scolastica verso una illusoria espansione di creatività? È qualcosa che sembra voler dar corpo a quegli svolgimenti utopici del marxismo, secondo cui nella società senza classi (sociali) tutti sarebbero stati artisti (e mi piacerebbe ricordare una parodia che qualche tempo fa ne fece Ermanno Cavazzoni), ma che in realtà riconduce il mondo scolastico al modello del talent show, a quella miseria dell’illusione performativa che imperversa nella più rovinosa cultura dominante.
Va certo potenziato l’insegnamento dell’arte e della musica, ma non certo per creare stuoli di pittori e suonatori, ma per rendere tutti capaci di guardare la pittura, di ascoltare la musica. E che dire del fuggevole accenno alla lingua, in funzione di un loro destinazione alla scrittura creativa? Siamo seri: abbiamo bisogno di ben altro. Abbiamo bisogno di una cultura umanistica (e di un rapporto con la lingua e con le forme artistiche) come esercizio della complessità del sapere e dell’esperienza, del senso della memoria e della storia: sotto il segno di una ragione intimamente solidale con la ragione della scienza; in cui il rapporto con la bellezza non possa prescindere dalla disponibilità all’ascolto, da distanza e distacco critico. Il difficile mondo che abbiamo davanti e che si prospetta per il futuro delle giovani generazioni richiede qualcosa di ben diverso dai dilettevoli temi della creatività.




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GIULIO FERRONI è storico della letteratura, critico letterario, scrittore. Dal 1982 al 2013 ha insegnato Letteratura italiana alla «Sapienza» di Roma.  “A  Ferroni si devono saggi che spaziano da Machiavelli al Novecento, dall’Aretino ai contemporanei, dall’analisi del comico a una Storia della letteratura italiana; saggi che colgono nei testi, con grande acutezza, il volto del mondo e del suo divenire, il rapporto dell’opera e del suo linguaggio con le trasformazioni del costume, dei valori, della politica, della tecnologia” (Claudio Magris). Tra le sue opere, la Storia della letteratura italiana in 4 volumi, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura ; La scuolasospesa editi da Einaudi; La scena intellettuale. Tipi italiani, Passioni del Novecento e Machiavelli, o dell’incertezza pubblicati da Donzelli. Scritture a perdere (Laterza, 2010), Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto (Il Saggiatore, 2013). Per la Salerno Editrice ha pubblicato, nel 2008, Ariosto, vincitore del premio «De Sanctis» 2009.
 

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