di Gabriele Uras,
Dirigente Tecnico MIUR in quiescenza
La scuola non è più un ascensore sociale. Sociologi, pedagogisti,
politici lo dicono da tempo e con qualche rammarico, anche sulla
scorta di ricerche sempre più accurate sul rapporto tra mobilità
sociale e organizzazione dei sistemi scolastici. La nostra comune
esperienza ce lo conferma, ma la storia ci insegna che non sempre è
stato così. In un geroglifico dell’antico Egitto si legge di un
padre che raccomanda al figlio di impegnarsi nello studio, giacché
attraverso di esso avrebbe potuto diventare uno scriba e, grazie a
questo titolo, essere di guida ad altri uomini e percorrere i gradini
delle diverse carriere che la stratificata struttura sociale rendeva
possibili, in campo militare, nell'amministrazione, nella medicina e
altrove.
Del resto, fino a qualche decennio fa questo meccanismo di ascesa
sociale agiva sotto i nostri occhi. Quando negli anni 60 del secolo
scorso il mio piccolo Comune dovette provvedere a sostituire un
impiegato collocato a riposo (a quei tempi ce n’era solo uno, con
il titolo di applicato, oltre al Segretario, alla guardia e al
netturbino tuttofare), la scelta cadde su un giovane ch’era in
possesso della licenza media, reduce da alcuni anni di seminario
diocesano poi convertiti in titolo valido per i concorsi grazie
all’esame sostenuto nella scuola statale. Era figlio di un barbiere
e, grazie all’impiego, il cui ottenimento fu facilitato dalla
mancanza di altri concorrenti con il titolo, divenne “signore” e,
nel ristretto ambito del paesello, quasi un uomo di potere, al quale
ognuno diceva buongiorno, e gioiva della risposta. Quando ebbe figli,
li mandò tutti a studiare fino all’Università. La scuola aveva
svolto in maniera egregia la funzione di ascensore sociale.
Poi venne la scuola media unica e l’illusione di una
uguaglianza che doveva rivelarsi nominale e provvisoria. Si parlò
per qualche tempo di “qualità di massa”, di una scuola aperta a
tutti, ma sempre in grado di offrire a chi la frequentava un servizio
formativo di qualità e di efficacia pari a quello fino a ieri
assicurato ai suoi allievi della scuola di élite, quella del Pierino
di Don Milani, la vecchia scuola del latino, lingua che in un primo
tempo si credette di poter conservare anche in quella destinata a
Gianni e Pierino finalmente insieme. Massa e qualità per molti erano
due esigenze tra loro inconciliabili, quasi un ossimoro, un generoso
binomio impossibile da realizzare. Col tempo, i concorrenti ai posti
di lavoro crebbero, si adottarono criteri di selezione sempre più
precisi e sofisticati, tra i quali quello del titolo scolastico era
solo preliminare e non decisivo: fu necessario distinguere in base ai
voti attestati dalle rispettive carriere scolastiche e da prove
appositamente predisposte per meglio mettere a fuoco i meriti di
ciascuno.
Ma di fatto il livello dell’istruzione, che un tempo
distingueva gli uni dagli altri i giovani aspiranti a un posto di
lavoro, ora li assimilava, occultando le differenze in nome della
parità offerta dalla equipollenza del titolo di studio, che non si
negava a nessuno. La scuola non era più un affidabile strumento di
ascesa sociale. Da scuola di pochi, com'era stata in passato, era
diventata scuola di tutti, ma di fatto era tornata ad essere scuola
dei pochi che erano in grado di poterne fare a meno, avendo a
disposizione altre e più valide opportunità di ascesa sociale.
In sua vece, fatalmente e di necessità, subentrarono altri e
ben più efficaci criteri: il caso, le clientele, le parentele, le
affinità “elettive”…. Gli ascensori ci sono ancora, ma tra
di essi manca (quasi del tutto) la scuola. Tra qualche anno arriverà
qualcuno a raccontarci, quasi fosse una novità, che la scuola non è
più un ascensore sociale.
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