Gilda

venerdì 2 novembre 2018

Ascensore sociale

di Gabriele Uras, 
Dirigente Tecnico MIUR in quiescenza



La scuola non è più un ascensore sociale. Sociologi, pedagogisti, politici lo dicono da tempo e con qualche rammarico, anche sulla scorta di ricerche sempre più accurate sul rapporto tra mobilità sociale e organizzazione dei sistemi scolastici. La nostra comune esperienza ce lo conferma, ma la storia ci insegna che non sempre è stato così. In un geroglifico dell’antico Egitto si legge di un padre che raccomanda al figlio di impegnarsi nello studio, giacché attraverso di esso avrebbe potuto diventare uno scriba e, grazie a questo titolo, essere di guida ad altri uomini e percorrere i gradini delle diverse carriere che la stratificata struttura sociale rendeva possibili, in campo militare, nell'amministrazione, nella medicina e altrove.

Del resto, fino a qualche decennio fa questo meccanismo di ascesa sociale agiva sotto i nostri occhi. Quando negli anni 60 del secolo scorso il mio piccolo Comune dovette provvedere a sostituire un impiegato collocato a riposo (a quei tempi ce n’era solo uno, con il titolo di applicato, oltre al Segretario, alla guardia e al netturbino tuttofare), la scelta cadde su un giovane ch’era in possesso della licenza media, reduce da alcuni anni di seminario diocesano poi convertiti in titolo valido per i concorsi grazie all’esame sostenuto nella scuola statale. Era figlio di un barbiere e, grazie all’impiego, il cui ottenimento fu facilitato dalla mancanza di altri concorrenti con il titolo, divenne “signore” e, nel ristretto ambito del paesello, quasi un uomo di potere, al quale ognuno diceva buongiorno, e gioiva della risposta. Quando ebbe figli, li mandò tutti a studiare fino all’Università. La scuola aveva svolto in maniera egregia la funzione di ascensore sociale.

Poi venne la scuola media unica e l’illusione di una uguaglianza che doveva rivelarsi nominale e provvisoria. Si parlò per qualche tempo di “qualità di massa”, di una scuola aperta a tutti, ma sempre in grado di offrire a chi la frequentava un servizio formativo di qualità e di efficacia pari a quello fino a ieri assicurato ai suoi allievi della scuola di élite, quella del Pierino di Don Milani, la vecchia scuola del latino, lingua che in un primo tempo si credette di poter conservare anche in quella destinata a Gianni e Pierino finalmente insieme. Massa e qualità per molti erano due esigenze tra loro inconciliabili, quasi un ossimoro, un generoso binomio impossibile da realizzare. Col tempo, i concorrenti ai posti di lavoro crebbero, si adottarono criteri di selezione sempre più precisi e sofisticati, tra i quali quello del titolo scolastico era solo preliminare e non decisivo: fu necessario distinguere in base ai voti attestati dalle rispettive carriere scolastiche e da prove appositamente predisposte per meglio mettere a fuoco i meriti di ciascuno.

Ma di fatto il livello dell’istruzione, che un tempo distingueva gli uni dagli altri i giovani aspiranti a un posto di lavoro, ora li assimilava, occultando le differenze in nome della parità offerta dalla equipollenza del titolo di studio, che non si negava a nessuno. La scuola non era più un affidabile strumento di ascesa sociale. Da scuola di pochi, com'era stata in passato, era diventata scuola di tutti, ma di fatto era tornata ad essere scuola dei pochi che erano in grado di poterne fare a meno, avendo a disposizione altre e più valide opportunità di ascesa sociale.

In sua vece, fatalmente e di necessità, subentrarono altri e ben più efficaci criteri: il caso, le clientele, le parentele, le affinità “elettive”…. Gli ascensori ci sono ancora, ma tra di essi manca (quasi del tutto) la scuola. Tra qualche anno arriverà qualcuno a raccontarci, quasi fosse una novità, che la scuola non è più un ascensore sociale.
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