Intervista a Ivano Dionigi * su Professione Docente
di Renza Bertuzzi
1) Professor Dionigi, il suo libro parla di noi. E comincia con un bell’ interrogativo : come mai, nell’ epoca della comunicazione, minima è la comprensione? Siamo tornati alla Torre di Babele?
Il problema l’aveva ben identificato Paul Ricoeur: “viviamo in un’epoca caratterizzata dalla ipertrofia dei mezzi e dall’atrofia dei fini”. Noi oggi siamo a rischio di due gravi errori. Il primo: confondere la parola con la comunicazione, dimenticando che la parola (il logos) è prima, originaria, necessaria, e che la comunicazione è seconda, mediata e strumentale. Il secondo: ridurre la parola a vocabolo, cioè a qualcosa di inespressivo, inanimato, cadaverico, che ha perduto il legame con la “cosa” e con il suo valore originario. Quanti usi mistificati e false equivalenze! Si pensi ai tanti neologismi, quali «legge di mercato» per sfruttamento, «flessibilità» per disoccupazione, «economia sommersa» per lavoro nero, «guerra preventiva» per aggressione, «corridoio di pace» per intervento militare. Costruttori di una quotidiana Babele linguistica, nella quale una stessa parola rinvia a significati diversi e parole diverse vengono indirizzate verso un senso unico, viviamo nel bisogno e nell’attesa di una pentecoste laica che ci consenta di leggere il mondo e di capirci. A mio parere, questo è il tempo non dei cittadini ma dei padroni del linguaggio. Nel tempo della retorica totale – dove la parola sembra più che mai essere il destino di ognuno di noi e dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola.
2) Lei afferma che oggi molte sono le risposte e poche le domande. La vulgata sostiene che la Scuola debba fornire soprattutto risposte ( troppe, a nostro parere). La Scuola, concepita nel suo significato costituzionale di istituzione repubblicana, cosa dovrebbe prevalentemente fornire?
Io credo che la scuola debba educare all’ars interrogandi, più importante e decisiva dell’ars respondendi: coltiviamo troppi perché causali, e troppo pochi perché interrogativi. Quanto poi
all’alternativa se la scuola deve privilegiare la conoscenza o la competenza, se deve mirare alla formazione o alla professione, allo studio o al lavoro, ha già risposto vent’anni fa il Rettore di Harvard Derek Bok in una lettera agli studenti: «se pensate di venire in questa Università ad acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore state perdendo il vostro tempo. Noi non siamo capaci di prepararvi per quel lavoro che quasi certamente non esisterà più intorno a voi. Ormai il lavoro, a causa dei cambiamenti strutturali, organizzativi e tecnologici è soggetto a variazioni rapide e radicali. Noi possiamo solo insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente”. Oggi credo che alla scuola spetti un compito nuovo, culturalmente e strategicamente decisivo: creare un’alleanza tra le discipline scientifico-tecnologiche, alle quali spetta l’onere della risposta ai problemi del momento, e le discipline umanistiche, alle quali spetta l’onere della domanda. A me piace immaginare la compresenza nella stessa aula del professore di «latino» – e in generale dei professori delle discipline umanistiche – e del professore di «digitale» (infelicemente denominato dalla burocrazia ministeriale «animatore digitale»). Da tale confronto i ragazzi capirebbero sia la differenza tra il tempo e lo spazio sia la necessità della coabitazione tra l’hic et nunc («qui e ora») e l’ubique et semper («ovunque e sempre»).
3) L’ idea, ormai dilagante, che il latino sia inutile rimanda alla dicotomia utile/ inutile applicata a discipline e a contenuti scolastici. Vale questa dilemma per la cultura, che dovrebbe essere a fondamento dell’ istruzione pubblica?
A forza di predicare e promuovere ciò che è utile, ci siamo ritrovati poveri e ignoranti. Non sarà il caso di rivedere le categorie di utile e inutile? Se proprio vogliamo essere rigorosi e coerenti, perché allora non ci chiediamo a cosa serve la vita, se alla fine tutto è pulvis et umbra? Restando più modestamente al nostro tema, io credo che il latino – e più in generale le humanities - ci servono non solo per parlare bene e per pensare bene, ma anche per accedere a quel mondo antico il cui lascito linguistico, archeologico, artistico, letterario, ideale costituisce il biglietto da visita e l’orgoglio – qualcuno azzarda a dire «il petrolio» – dell’Italia e degli italiani nel mondo.
Possiamo davvero capire e far capire, e soprattutto conservare e capitalizzare questo patrimonio unico senza conoscere la lingua e la cultura dei Romani? Se non si è convinti che ne va del nostro destino culturale, lo si capisca almeno in nome dell’investimento economico e dell’opportunità occupazionale per i nostri giovani. Ce lo ricordava con preoccupazione Giuseppe Pontiggia: «mai l’America, se Roma fosse sorta nel Texas, si sarebbe comportata come fa la scuola italiana».
4) Tra le soluzioni che lei prospetta, per non dover eliminare nella scuola discipline formative, a parte l’ auspicio di aumentare gli stipendi dei docenti, vi è anche quella di abolire i compiti a casa. Come si concilia questa proposta con il fatto che lo studio, pur se non matto e disperatissimo, ha necessità di momenti individuali di approfondimento e di esercitazione?
Ritengo che la scuola italiana debba sostituire la politica dell’aut aut con quella dell’et et: vale a dire non togliere ma aggiungere discipline, impegno, tempo. Per questo bisogna dilatare gli orari, aumentare gli stipendi ai professori, rivedere i compiti a casa. Certamente va valorizzato e incrementato il tempo della scuola; una misura che, oltre a consentire un maggior ventaglio di materie, avrebbe anche una valenza di giustizia sociale soprattutto nelle parti del Paese più deboli e svantaggiate. Sì, in verità io ho parlato di “abolire i compiti a casa”: ma ovviamente si tratta di una provocazione. Anch’io infatti ritengo che il momento dello studio, della riflessione e della responsabilità individuale è imprescindibile e insostituibile. L’importante è non smarrire il significato originario di “scuola” che deriva da scholé, parola greca che indica il tempo che il cittadino riservava a se stesso, alla propria formazione, quella che i Greci chiamavano paidéia e che volevano non specialistica e monoculturale, bensì enkỳklios, “circolare”.
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* Professore ordinario di letteratura Latina, è stato Magnifico Rettore dell'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna dal 2009 al 2015; è membro dell'Accademia delle Scienze di Bologna e del Centro Studi Ciceroniani. Fondatore e direttore del centro studi La permanenza del classico dell’ Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Il 10 novembre 2012 viene nominato da Benedetto XVI presidente della neonata Pontificia. Negli anni i suoi studi si sono orientati soprattutto su Lucrezio e su Seneca, sul rapporto tra Cristiani e Pagani, sulla fortuna dei Classici nella cultura e tradizione italiana ed europea. Tra volumi, saggi e articoli, è titolare di oltre un centinaio di pubblicazioni.
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